Un caso clinico solo apparentemente banale

Recentemente ho affrontato l'argomento della fibrillazione atriale ed in quell'occasione ho evidenziato come si possa trovare, in questa aritmia, una condizione di bassa frequenza o, più spesso, di alta frequenza ventricolare media.

Pur avendo già parlato di bradicardia in un altro articolo, vorrei ribadire alcuni concetti e portare all'attenzione di tutti un caso clinico da me recentemente riscontrato, abbastanza raro ma di estrema importanza nella diagnostica precoce, per cercare di ridurre i casi di morte improvvisa.

Consideriamo che, nel caso in cui fossimo di fronte ad una condizione di ritmo sinusale cioè di ritmo regolare, la frequenza ventricolare la definiremmo normale se fosse compresa tra i 60 e i 100 battiti al minuto. Quando la stessa dovesse essere inferiore a 60 parleremmo di bradicardia mentre quando fosse superiore ai 100 battiti al minuto dovremmo definirla come tachicardia.

Laddove la frequenza cardiaca dovesse essere particolarmente alta o, al contrario particolarmente bassa, il soggetto potrebbe accusare una sintomatologia del tutto analoga rappresentata da sindrome vertiginosa o, talvolta, addirittura da caduta a terra con o senza perdita di conoscenza.

Questo perché in entrambi i casi il disturbo emodinamico generato da un’anomala frequenza cardiaca può comportare una riduzione della portata cardiaca e, conseguentemente, una diminuzione dell'apporto di sangue a livello cerebrale.

Solo nel caso della tachicardia il paziente potrebbe accusare anche palpitazioni o affanno.

Oggi, illustrando questo caso clinico particolare, vorrei sottolineare come possa insorgere una spiccata ed improvvisa bradicardia per il manifestarsi di un cosiddetto "gap", di durata variabile ma in genere superiore a 2,5 secondi.

Il gap, in realtà, non va considerato come una reale bradicardia ma come una vera e propria interruzione del battito cardiaco per assenza dello stimolo elettrico generato dagli atrii senza la comparsa di un ritmo sostitutivo di origine ventricolare.

Questo gap, che come detto deve essere superiore a 2,5 secondi per poter essere definito tale, può talvolta durare più secondi generando la comparsa della sintomatologia sopra riportata.

Nel recente caso clinico oggi descritto e documentato attraverso l’Holter cardiaco, l'interruzione del battito è stata di quasi 7 secondi e la paziente ha riferito, esattamente alla stessa ora, l’improvvisa comparsa di uno sbandamento che l’ha costretta ad un appoggio di fortuna. Il malessere sarebbe poi rapidamente scomparso.

In realtà la stessa paziente da tempo accusava ripetuti e momentanei analoghi eventi per i quali aveva già fatto ricorso a numerosi specialisti di altra disciplina nel sospetto di una patologia non cardiogena; tutto ciò nonostante avesse in anamnesi episodi di fibrillazione atriale parossistica e fosse, già da tempo, in trattamento con farmaci ad azione scoagulante e con antiaritmici.

Fortunatamente per lei ha chiesto, alla fine, la consulenza di un cardiologo di sua fiducia che, riscontrando una bradicardia sinusale (battito normale ma lento), ha ritenuto di dover chiedere un Holter cardiaco delle 24 ore. Alla luce dei successivi fatti, il suo comportamento è stato molto scrupoloso e provvidenziale.

A differenza di quanto visto dal Collega il giorno precedente, al momento del montaggio dell’Holter riscontravo e documentavo con un elettrocardiogramma la presenza di fibrillazione atriale ad alta frequenza ventricolare media. Allo smontaggio del giorno successivo era di nuovo presente bradicardia sinusale.

Mi affrettavo a leggere il tracciato nel quale si evidenziavano due differenti ritmi, fibrillazione atriale prima e ritmo sinusale poi, interrotti da un importante gap comparso dopo circa dieci ore dall’inizio dell’esame.

Interessante è stata la coincidenza della brusca interruzione del ritmo da fibrillazione atriale con l’arresto cardiaco e la successiva ricomparsa del ritmo sinusale. Un po' quello che accade quando, nel paziente fibrillante che non risponde alla terapia farmacologica, operiamo una cardioversione elettrica.

Naturalmente la paziente è stata giudicata idonea al posizionamento di un pacemaker che, prontamente impiantato, impedirà la comparsa di nuovi simili e pericolosi episodi.

L’utilità di descrivere questo caso clinico è legata a diverse considerazioni:

  • È necessario porre sempre la massima attenzione all’analisi del racconto del paziente (anamnesi): in questo caso la sindrome vertiginosa non era, come quasi sempre accade, legata ad un brusco movimento del capo o ad un cambio di postura. Ciò avrebbe dovuto far escludere una problematica della colonna cervicale o di una patologia di interesse otorinolaringoiatrico o di tipo neurologico puro.
  • Molto verosimilmente la scelta di consultare uno specialista in altra disciplina piuttosto che il cardiologo è derivata da un’autonoma decisione della paziente. Sarebbe stata più corretta l’esposizione della problematica al proprio medico di fiducia che, attraverso un’attenta analisi della sintomatologia e dei dati obiettivi, avrebbe potuto indicare il percorso diagnostico più adeguato per raggiungere in tempi rapidi la diagnosi finale.
  • Dovrebbe sempre essere valutata attentamente la malattia del paziente come possibile causa del sintomo aggiunto: in questo caso la presenza della fibrillazione atriale parossistica. Nella comune pratica medica è soprattutto l’internista che cerca di unificare tutti i sintomi in un’unica patologia essendo questa la condizione di più frequente riscontro.
  • È sempre necessario eseguire gli accertamenti consigliati il più velocemente possibile: almeno in questo caso un esame posticipato di qualche mese per mancanza di disponibilità avrebbe potuto metter a rischio la paziente. Far presto onde evitare di "arrivare tardi"!
  • Da sottolineare come, analogamente a quanto spesso accade nella pratica clinica, la collaborazione e l’intesa tra più professionisti ha contribuito, seppur tardivamente, ad ottimizzare il risultato nell’interesse della paziente.

Per approfondire l’argomento:

Questo come numerosi altri casi clinici mi inducono sempre a riflettere su quale sarebbe stata l’indicazione da parte dei protocolli e delle linee guida previste dall’attuale normativa.

La Medicina delle evidenze attraverso l’elaborazione di tali procedure sta, a grandi passi, prendendo il posto della vecchia clinica medica legata all’intuizione e all'esperienza del singolo Medico. Sicuramente ciò comporta un radicale cambiamento della Professione che, in taluni casi, può rappresentare un valido aiuto al medico per dare risposte al paziente. Ma siamo certi che questa procedura sempre rappresenti la migliore soluzione?

 

 

Dr. Mauro Marchetti 

Specialista in Medicina Interna

 

 


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