Considerazioni generali sulla pressione arteriosa
La pressione arteriosa è la valutazione, effettuata in modo non cruento attraverso lo sfigmomanometro, della forza con cui il sangue viene spinto dal cuore all'interno dei vasi sanguigni.
Anche se nell'accesso comune del termine l'ipertensione arteriosa viene vista come una vera e propria patologia, considerati una serie di elementi clinici che poi analizzeremo, in realtà l'incremento pressorio è meglio definibile esclusivamente come sintomo e come importante fattore di rischio cardiovascolare.
Indice
Quando considerare l'ipertensione arteriosa come una vera patologia
Ipertensione sistolica e/o diastolica
Ipertensione primitiva (essenziale) o secondaria
Pressione massima e minima: quando e perché intervenire
Adeguamento delle abitudini di vita nel paziente iperteso
Accertamenti diagnostici mirati al controllo nel tempo dello stato ipertensivo
Concetti generali sul trattamento farmacologico dell'ipertensione arteriosa
La variabilità pressoria
Una prima considerazione da fare è che, in tutti i soggetti, è sempre presente una variabilità pressoria, talora anche cospicua, che può realizzarsi ad intervallo di tempo variabile, talora nell'arco di una giornata, talora a distanza di settimane, mesi o anni, talora anche tra una misurazione e l'altra effettuata a distanza di pochi minuti. Questa ultima differenza fa sì che viene spesso consigliata una misurazione ripetuta della pressione arteriosa considerando il secondo o terzo valore quale effettivo parametro di riferimento.
Tale incremento della variabilità pressoria è valutabile in modo particolarmente attendibile attraverso il monitoraggio delle 24 ore, soprattutto valutando la variabilità pressoria tra le ore di veglia e quelle di sonno.
Quindi, benché anche nel soggetto normale sia possibile riscontrare una variabilità pressoria, nel soggetto affetto da ipertensione arteriosa i valori tensivi riscontrati in differenti misurazioni possono essere molto differenti tra loro rispetto a quanto verificabile nel soggetto normoteso.
É possibile, inoltre, rilevare una differenza di valori tensivi in relazione a situazioni di stress fisico e/o psichico del soggetto esaminato, sia esso normoteso che iperteso. E questo in quanto il sistema cardiovascolare necessariamente deve adeguare ed ottimizzare il flusso di sangue nei differenti distretti in relazione alle necessità dell'organismo: se il soggetto sale una rampa di scale, aumenta il lavoro muscolare, e di conseguenza aumenta la necessità di apporto nutrizionale al muscolo (ossigeno e glucosio). Necessariamente dovrà allora essere incrementato il flusso sanguigno nel muscolo e ciò si può realizzare unicamente attraverso un aumento della pressione arteriosa sistemica. Tale stato ipertensivo, in quel frangente, non può essere considerato un problema bensì un utile supporto alla gestione dello sforzo fisico. Naturalmente tale incremento pressorio potrebbe rappresentare un problema nel caso in cui si trattasse di un paziente affetto da patologia (ad esempio la presenza di uno scompenso cardiaco) ma in tal caso a quel paziente sarebbe stato sconsigliato dal medico di effettuare attività fisica per evitare inutili rischi.
Anche piccoli stress psicofisici possono essere responsabili di un sia pur minimo incremento dei valori tensivi come accade, ad esempio, con il cambio posturale (il paziente che si alza per avvicinarsi allo sfigmomanometro) o in relazione ad una animata conversazione. Per tale motivo si richiedono precise accortezze in prossimità dei rilievi della pressione arteriosa.
Allora, se un incremento della pressione arteriosa può essere giustificato da situazioni contingenti o addirittura può essere definito fisiologico o reattivo a determinati eventi, quando considerare l'ipertensione arteriosa come vera patologia?
Quando considerare l'ipertensione arteriosa come una vera patologia?
Fermo restando il concetto che il rilievo di elevati valori pressori, soprattutto se superiori a determinati livelli, debba essere considerato principalmente un problema del momento in quanto potrebbe generare una immediata complicanza cardiovascolare, possiamo considerare lo stato ipertensivo una vera e propria patologia quando dovesse risultare essere associato ad un sia pur minimo danno d'organo. Sarà, comunque, da considerare affetto da ipertensione arteriosa come vera patologia il soggetto che, al monitoraggio pressorio, dovesse mostrare valori costantemente elevati rispetto a quelli ritenuti normali o colui il quale dovesse far rilevare la mancata riduzione dei valori tensivi durante il sonno (paziente non dipper). Altra possibilità, sia pur marginale per definire un paziente come vero iperteso, è la condizione in cui si dovesse rilevare un incremento della variabilità pressoria sempre al monitoraggio pressorio.
Per danno d'organo si intende la comparsa, nel caso specifico del paziente iperteso, di alterazioni morfologiche o funzionali di organi bersaglio per lo stato ipertensivo.
In altri termini la comparsa di problematiche cardiache che possono estrinsecarsi nella semplice ipertrofia del ventricolo sinistro (ispessimento della parete libera e/o del setto interventricolare) o, successivamente, nella sua dilatazione con conseguente riduzione della capacità contrattile dello stesso che pregiudica la comparsa dello scompenso cardiaco più o meno conclamato.
Altro possibile danno d'organo è rappresentato dalla presenza, sia pur multifattoriale e non solo secondaria unicamente allo stato ipertensivo, di infarto miocardico, di presenza di lesioni micro o macro ischemiche cerebrali che possono essere evidenziate clinicamente o solo attraverso accertamenti radiologici (TC, RMN), di danno renale con quadri di insufficienza di varia gravità, causa o effetto di uno stato ipertensivo, di una vasculopatia aterosclerotica dei grossi vasi (carotidi, aorta, ecc.) anch'essi alterati spesso per la concomitanza di più fattori patologici e non soltanto per l’incremento della pressione arteriosa.
Ipertensione sistolica e/o diastolica
Notoriamente la misurazione della pressione arteriosa prevede la registrazione di due valori tensivi: la pressione massima definita come sistolica e la pressione minima definita come diastolica.
Entrambe sono originate da specifici e differenti meccanismi fisiopatologici, hanno diverso significato clinico e possono indurre problematiche diverse anche in relazione all'età del paziente che le manifesti.
La pressione sistolica (la massima) è legata principalmente al comportamento dei grossi vasi sanguigni capaci, con la loro elasticità, di operare una redistribuzione temporale della spinta impressa al sangue dalla contrazione del cuore (sistole).
Questa capacità dei vasi permette lo scorrimento continuo del flusso di sangue nonostante l’intermittenza della pompa cardiaca (alternanza di sistole e diastole) generando un flusso lineare e costante.
L’irrigidimento della parete dei grossi vasi sanguigni, tipico dell’età avanzata o della presenza di fattori di danno parietale quali lo stato ipertensivo, inducono la perdita dell’elasticità dei grossi vasi e in primis dell’aorta, che così riducono la loro capacità di incamerare energia durante la fase di contrazione cardiaca (sistole). Viene allora meno la possibilità di rilascio, da parte delle arterie ed in fase diastolica, dell’energia accumulata durante la sistole.
Ne deriva un incremento della pressione arteriosa massima, talora con minima normale o addirittura molto bassa, che tipicamente si riscontra nell’anziano (ipertensione sistolica isolata).
La pressione diastolica (la minima), invece, è il prodotto di due concomitanti fattori di cui uno, le resistenze periferiche, la generano favorendone l’incremento e l’altro, la valvola aortica che con una sua eventuale insufficienza, può indurne un significativo calo.
Le resistenze periferiche altro non sono che i piccolissimi vasi sanguigni precapillari, ubiquitari e numericamente elevatissimi cbe, differentemente dai capillari, sono ancora provvisti di muscolatura liscia. Tale struttura muscolare, involontaria, può generare vasospasmo ed ostacolare il flusso sanguigno. Tale condizione induce l’incremento della pressione minima.
Controprova di tale meccanismo d’azione è il sia pur minimo calo della pressione diastolica con l’uso di farmaci vasodilatatori (alfa litici) spesso prescritti in questo tipo di ipertensione.
Difficile spiegarsi la motivazione per cui alcuni pazienti manifestino un aumento delle resistenze periferiche e quindi una ipertensione diastolica ma, probabilmente, la causa è da ricercare in fattori genetici che fanno poi definire l’ipertensione come essenziale.
L’insufficienza della valvola aortica, tipica dell’età adulta per problemi di invecchiamento, inducendo un deflusso di sangue verso il ventricolo sinistro in fase diastolica, determina la riduzione della pressione minima, talora cospicua, caratteristica dell’anziano.
Un plauso va fatto a tutti ma soprattutto ai pazienti che hanno brillantemente accolto l’invito dei medici a controllare e trattare la pressione arteriosa quando necessario attraverso i semplici strumenti che la tecnologia ha messo a nostra disposizione.
Unico appunto, e solo perché migliora e velocizza la comprensione con il medico, è che, per convenzione, la lettura dei valori prevede prima il riferimento della pressione massima e poi della minima, non viceversa. Quindi comunicando o scrivendo il diario relativo ai valori tensivi registrati riferire sempre prima il valore della massima e poi della minima (ad esempio 120/80) e non il contrario.
Ipertensione primitiva (essenziale) o secondaria
La distinzione tra ipertensione essenziale ed ipertensione secondaria, anche se apparentemente di esclusiva pertinenza medica, è una problematica che mi piace affrontare con il paziente affinchè anche lui possa percepire quanto la medicina sia ancora oggi, in realtà, agli esordi e non sia assolutamente in grado di dare risposte certe almeno nella grande maggioranza delle problematiche che gli vengono presentate.
L'ipertensione arteriosa è un esempio particolarmente eclatante di tale concetto in virtù sia della frequenza con la quale si riscontra, sia perchè il paziente è particolarmente introdotto alla patologia e sia anche in funzione del fatto che, da noi medici, viene spesso definita essenziale con la presunzione di far credere di averne ben compresa l'origine ed il suo inquadramento nosografico.
In realtà, come per molte altre patologie, viene spesso utilizzato il termine di essenziale per indicare velatamente l'incapacità a definire l'origine del problema ed il suo vero significato. In questi termini definire un paziente come affetto da ipertensione arteriosa essenziale vuol dire unicamente descrivere il sintomo che andiamo a trattare e non capire a fondo l'origine di una effettiva malattia per la quale poter mirare alla guarigione.
In altri termini, evidenziate per quel paziente le prerogative caratteristiche della “malattia ipertensiva”, ci dobbiamo accontentare di controllare i valori alterati cercando di riportarli alla norma attraverso corretti stili di vita e molto spesso somministrando farmaci senza mirare a risolvere definitivamente il problema.
Nella migliore delle ipotesi possiamo ridurre le complicanze ed i danni d'organo dello stato ipertensivo restando alla mercè di fattori sconosciuti che talvolta fanno sì che i valori tensivi si normalizzino senza un apparente motivo e senza alcun nostro intervento. Sono le classiche condizioni che generano la variabilità pressoria nel lungo periodo di osservazione di cui sopra abbiamo detto e che implicano trattamenti farmacologici variabilissimi nel tempo.
Alla base dell'ipertensione essenziale è sicuramente presente un particolare assetto genetico che si concretizza nel noto concetto di familiarità di cui poco o nulla sappiamo e che solo ora si inizia a studiare attraverso lo studio cromosomico.
L'ipertensione secondaria, viceversa, è quella rara condizione in cui è possibile definire la causa dell'aumentato stato tensivo. In questo caso è talora possibile programmare un intervento sul problema causa dell'ipertensione per risolvere definitivamente la patologia.
Vista la frequenza con cui si riscontra l'ipertensione nella popolazione e confrontata con la nostra difficoltà ad identificarne la causa, l'elemento fondamentale per iniziare un processo diagnostico complesso e spesso non fruttuoso è rappresentata dall'età del paziente.
Così, mentre in un soggetto giovane è doveroso effettuare una serie di accertamenti diagnostici, laboratoristici e strumentali anche di secondo livello, per identificare l'origine della malattia, nel soggetto in età più avanzata e soprattutto se con familiarità per il problema, si preferisce intervenire sul sintomo impegnandosi nella diagnostica per l'eventuale presenza di danno d'organo e, contemporaneamente, andare alla ricerca della terapia più efficace evitando o riducendo gli effetti collaterali della stessa.
Naturalmente gli stessi obiettivi terapeutici verranno presi in considerazione anche per l'iperteso con patologia secondaria almeno fino a che il problema iniziale non sia stato identificato, affrontato e risolto.
Senza entrare nei particolari perchè riservati agli addetti ai lavori, la diagnostica dell'ipertensione secondaria viene fatta soprattutto sul rene e sul sistema endocrino con particolare riferimento al surrene e alla tiroide.
Pressione massima e minima: quando e perché intervenire
Senza scomodare le linee guida internazionali che, periodicamente riviste e corrette, stanno ad indicare i valori pressori normali, ai limiti della norma o chiaramente indicativi di uno stato ipertensivo, possiamo genericamente considerare come normoteso il soggetto che presenti costantemente una pressione arteriosa di 120/80 mmHg.
In realtà, una una siffatta affermazione difficilmente può essere verificata costantemente nel soggetto monitorato vista la variabilità pressoria che caratterizza tutti noi. Ciò anche in relazione al fatto che, momento per momento, la rilevazione è influenzata da una serie di variabili per cui si impone una quanto più possibile standardizzazione dei rilievi.
Da qui la necessità di istruire il paziente su quando, come ed in che condizioni rilevare i valori pressori (locandina).
Va anche considerato il fatto che i valori cosiddetti normali (120/80) potrebbero non essere tali in relazione alle patologie sofferte dal paziente in questione: in tal senso potrebbero, ad esempio, essere troppo elevati in un concomitante grave scompenso cardiaco o, al contrario, potrebbero essere eccessivamente bassi in un soggetto con grave vasculopatia carotidea. Questo perché tali patologie cardiovascolari potrebbero negativamente influenzare la capacità contrattile del cuore o il flusso sanguigno cerebrale.
Ne consegue che, come molti sostengono, il normale valore pressorio vada sempre correlato al paziente affermando che sia auspicabile il più basso valore tensivo ben sopportato dal paziente.
Altra differenziazione che è necessario fare riguarda l'importanza dei valori tensivi, per la pressione massima e per la minima, in relazione al possibile danno d'organo.
Rilevare un valore di pressione sistolica (massima) particolarmente elevato, sempre relativamente a quel paziente, potrebbe generare la possibile rottura di un vaso sanguigno di differente calibro producendo un quadro emorragico: è ciò che accade quando durante una crisi ipertensiva si realizza una emorragia corneale, una epistassi o, talora, la rottura di un vaso intracranico magari sede di lesione aneurismatica (dilatazione di una arteria in genere congenita) con conseguente ictus cerebrale. Ovviamente, tale complicanza a seguito della crisi ipertensiva, potrà essere più frequente in pazienti in età avanzata quando i vasi arteriosi sono più rigidi e, quindi, più fragili o in presenza di malformazioni (aneurismi cerebrali) spesso misconosciute.
Pertanto, un brusco e significativo incremento della pressione massima, potendo determinare severe complicanze, va identificato e trattato nel più breve tempo possibile.
Diversamente, nel caso di rilievo di incremento della pressione diastolica (minima), non c'è necessità di immediato intervento in quanto il danno d'organo prodotto da questo incremento pressorio si realizza nel corso di decenni. Proprio in relazione a tale lenta evoluzione del danno, sarà opportuno un adeguato intervento farmacologico soprattutto nei soggetti giovani nei quali l'aspettativa di vita è particolarmente lunga. Sempre e soprattutto nei giovani andrà anche prevista una fase diagnostica per non trascurare una eventuale ipertensione secondaria.
C'è da dire, in realtà, che difficilmente è apprezzabile uno stato ipertensivo di questo tipo nel soggetto anziano in cui, per insufficienza aortica legata alla fisiologica perdita della continenza valvolare nel tempo, la pressione minima tende progressivamente a scendere. Nell'anziano, infatti, spesso si rileva il quadro della ipertensione sistolica isolata dove vengono rilevati valori elevati della massima e molto bassi della minima (ad esempio 170/50). Ovviamente in tal caso va preso in considerazione e trattato unicamente il primo valore.
Adeguamento delle abitudini di vita nel paziente iperteso
Diagnosticato uno stato di ipertensione arteriosa attraverso una serie di misurazioni effettuate nel tempo, magari avvalorato da un monitoraggio pressorio delle 24 ore e valutata l'eventuale presenza di danno d'organo, sarà necessario impostare la terapia ritenuta, nel singolo caso, più idonea.
Considerato che il rischio futuro di infarto ed ictus (rischio cardiovascolare) è funzione di una serie di variabili di cui almeno una parte modificabili, sarà opportuno che al soggetto iperteso vengano dati consigli su come modificare le proprie abitudini per mantenere lo stato di salute.
Sarà necessario, ad esempio, che il paziente modifichi il suo stile di vita eliminando o riducendo l'apporto di sodio dalla sua dieta (dieta iposodica). Dovrà controllare l'apporto calorico totale (dieta normo o ipocalorica) al fine di mantenere o ritornare al suo peso ideale e, comunque, ridurre l'apporto di grassi animali (dieta ipolipidica) e di zuccheri semplici (dieta ipoglucidica) per mantenere un adeguato controllo metabolico, vale a dire normali valori di colesterolo, di trigliceridi, di glicemia e di uricemia.
Sarà indispensabile l'abolizione del fumo di sigaretta, evitare la sedentarietà, favorire la ripresa dell'attività fisica che andrà iniziata con gradualità ed in funzione delle caratteristiche fisiche del soggetto.
Accertamenti diagnostici mirati al controllo nel tempo dello stato ipertensivo
Nel tempo sarà necessario controllare l'efficacia del trattamento sia attraverso il costante rilievo dei valori tensivi fatti in automisurazione, regolarmente registrati in un diario al fine di aver sempre sotto controllo l'andamento medio degli stessi, sia effettuando un monitoraggio pressorio.
Potrebbe essere necessario un aggiornamento del trattamento farmacologico in considerazione della variabilità della pressione arteriosa anche nel medio o lungo periodo o, talora, per l'insorgenza di nuove problematiche che potrebbero incidere sul controllo pressorio.
Periodicamente sarà opportuno rivalutare l'eventuale presenza di danno d'organo eseguendo una serie di accertamenti atti anche a percepire l'evoluzione del rischio cardiovascolare. Tra questi potrà essere eseguito almeno annualmente un esame ematochimico (esami del sangue) con il principale obiettivo di valutare il controllo metabolico (colesterolo totale, HDLC, LDLC, trigliceridi, uricemia, glicemia); l'eco color doppler TSA (carotidi) per evidenziare l'eventuale ispessimento della parete interna di tali vasi (endotelio) e l'eventuale presenza di placche ostruenti il lume. Ciò potrà essere indicativo anche di possibili analoghe alterazioni vascolari in sede più difficilmente raggiungibili con esami non invasivi (coronarie e vasi intracranici). Periodicamente (ogni 3-5 anni almeno) potrà essere effettuato un Ecocardio color doppler per evidenziare alterazioni delle varie sezioni cardiache secondarie allo stato ipertensivo.
Possibile l'eventuale approfondimento vascolare arterioso di altri distretti (ad esempio aorta ed arti inferiori) specie in concomitanza di segni o sintomi sospetti per una loro alterazione. Talora sarà utile una visita oculistica per verificare l'eventuale presenza di retinopatia ipertensiva.
Al di sopra di tutto ciò sarà, comunque, necessario un periodico controllo clinico in cui vengano rivalutati gli accertamenti eseguiti, l'esame obiettivo, le misurazioni pressorie registrate, l'eventuale presenza di sintomatologia clinica e, possibilmente, un ECG (elettrocardiogramma di base).
Concetti generali sul trattamento farmacologico dell'ipertensione arteriosa
Senza scendere in inutili dettagli considerando che la decisione di iniziare o meno il trattamento, di quali farmaci scegliere, della loro posologia e di come modificare nel tempo la terapia è assolutamente rimessa al medico curante o allo specialista non potendo il paziente prendere iniziative personali mancando di adeguate cognizioni in merito, sarà qui data solo qualche indicazione sul trattamento, più per conoscenza generica che per un possibile utilizzo dei dati esposti.
Di solito sarà opportuna una terapia di fondo in modo da stabilizzare i valori pressori considerando anche l'andamento medio fisiologico degli stessi nell'arco delle 24 ore. In particolare è da sottolineare il frequente rialzo pressorio nelle primissime ore del mattino (tra le 3 e le 5) periodo in cui si rilevano più frequentemente gli eventi cardiovascolari acuti (infarto ed ictus).
Sarà poi possibile integrare tale terapia con l'aggiunta di farmaci in occasione di crisi ipertensive che andranno prontamente e correttamente trattate.
La terapia consta principalmente di alcune classi farmacologiche e di ciascuna di loro sono presenti più molecole con caratteristiche talora significativamente diverse.
Tra queste riconosciamo:
- Ace inibitori e Sartani
- Calcio antagonisti
- Diuretici (tiazidici, dell'ansa, risparmiatori di potassio)
- Beta bloccanti
- Alfa litici
- Ad azione centrale (clonidina, alfa metil-dopa)
Le caratteristiche di classe di tali farmaci sono di pertinenza strettamente medica e quindi non saranno trattate. Possibile solo accennare al fatto che di solito gli Ace inibitori ed i Sartani sono orientati al trattamento di fondo e nella prevenzione del rischio cardiovascolare. I Calcio antagonisti sono i farmaci più efficaci ma hanno effetti collaterali da non sottovalutare; vengono utilizzati nelle forme più severe di ipertensione arteriosa e sono utili nel trattamento delle crisi ipertensive. I diuretici sono anch'essi talora utilizzati in emergenza ma possono anche essere usati ad integrare le altre terapie o per contrastare taluni effetti collaterali delle stesse. Gli alfa litici agiscono soprattutto sulla pressione diastolica (la minima) ma possono avere significativi effetti collaterali (ipotensione ortostatica). I beta bloccanti vengono di solito riservati al trattamento dello scompenso cardiaco e/o in presenza di aritmie ad impronta tachicardica (con aumento della frequenza cardiaca).
Conclusione
Per il paziente iperteso è indispensabile affidarsi al medico di riferimento o allo specialista sia nella fase diagnostica, sia nella valutazione periodica del danno d'organo, sia nella gestione della terapia. È fondamentale anche avere un sicuro riferimento in occasione dell'eventuale comparsa di una nuova sintomatologia o di un brusco rialzo dei valori pressori così da poter contare su un'immediata interpretazione del sintomo e ricevere un puntuale consiglio sul miglior comportamento da tenere. Potrebbe anche essere consigliata una terapia aggiuntiva da assumere in quel momento o modificare il trattamento farmacologico in corso.
Come sempre, per affrontare adeguatamente una malattia o un sintomo è fondamentale conoscere, sia pur genericamente, l'anatomia, la fisiologia, la patologia e la funzionalità dei vari organi e degli apparati del corpo umano.
In relazione all'ipertensione arteriosa è indispensabile conoscere ed approfondire gli argomenti sopra trattati ed questo è l'obiettivo che si pone il nostro programma divulgativo.
Dr. Mauro Marchetti
Specialista in Medicina Interna